Per celebrarlo degnamente, occorrerebbe un Mahâbhârata o almeno una Bhagavad-gîtâ... L'immenso storico del teatro Ferdinando Taviani ci ha lasciati da qualche ora. Siano in eterno ricordo presenti alla nostra memoria le sue opere
fondamentali sulla Commedia dell'Arte e sul Teatro dell'Ottocento e del Novecento e in modo speciale quelle dedicate all'Odin Teatret — il magnifico Libro dell’Odin e altri —, di cui è stato per decenni l'insostituibile e infaticabile consigliere letterario, il primo Amico, lo storico e il drammaturgo. Profonda umanità, rara, intensa e vissuta cultura, meravigliosamente italiana, senza confini né frontiere, precisione dell'analisi e folgorante, imprevedibile rapidità della sintesi. Un turbine intelligente: un autentico maestro.
Chi è un maestro? Qualcuno in cui la professione si accorda con la vocazione. Chi è capace di dare alla luce altri maestri. Chi traccia una via tra una voce e una vita trascorsa e altre voci e vite a venire. Un'altra ala della nostra anima ormai troppe volte ferita s'invola verso un incerto Aldilà. Mi ricevette un giorno nella sua casa di Roma vestito da Lawrence d’Arabia. Raramente le nostre conversazioni duravano meno di tre ore. Mi disse che non era mai stato in India — ma è vero? — perché non perdonava all’India di non averlo fatto nascere indiano. Ma se Eugenio me lo chiedesse — aggiunse... Forse v’era un Tagore in filigrana nelle sue mani, nel suo volto, nella sua mente: forse un magio caucasico o iraniano — forse un antico e moderno Zarathustra. È venuto più tardi da noi anche a Parigi, dove aveva dormito sul nostro letto sopra coperte e lenzuola, curiosa abitudine che mi aveva dimostrato anche a Bergamo, distendendosi sopra il letto di mio padre senza disfarlo. Sospettai che non poggiasse sul letto, ma vi restasse invisibilmente desto, e sospeso... A Parigi conversammo una notte intera fino all'alba, bevendo in rue des Rosiers un vino kasher, credo un Recanati, che l'aveva a buona ragione intrigato: lo ricorderò allora in rue des Rosiers, tra il mitico numero 54 e il 29, dove l'ospitammo, come ricordo Claudio Meldolesi davanti al Théâtre de l'Atelier, dove cenammo insieme per l'ultima volta — il vino era un Saint-Émilion di buona annata, che accompagnava un cous-cous royal —, e Fabrizio Cruciani davanti al Théâtre du Vieux Colombier, per ragioni evidenti.
Nando è nel Bardo: il Ponte di Cinvat che unisce la terra al cielo; nell'Intermediario del Tempo, visibile e invisibile. Ed eccolo laggiù, lassù, nell'Oltre-Tutto, vivo e intero, ancora ci ascolta e ci vede, ridendo, sovranamente, per un tempo che nessuno di noi può calcolare. Vi sono re che sono e non sono di questo mondo. Nacque nel giorno di Simone Weil. Mi trovo proprio ora nella sua città natale. Leggo il Triumph of Life che P.B. Shelley scrisse qui, prima del naufragio.