LETTERA DA VÀNVERA

Dalla Postfazione al libro: Franco Ruffini, Il filo rosso, Roma, Officina dei teatri, 2007.

 

Vànvera, domenica 17 settembre 2006

Caro Franco,

            un peperoncino e tre fiori: i brani che trovi in calce a questa mia avevo pensato di metterli in esergo, ma in una lettera non si può. Puoi, però, andarteli a leggere saltando il resto. Quel che li precede non è che un viottolo d’accesso con un po’ di ghiaia.

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Iben Nagel Rasmussen, che aveva smesso la dimostrazione di lavoro Luna e buio, pensava a qualcosa di nuovo e aveva riunito alcune figure ed alcune sequenze tratte dai suoi precedenti spettacoli. Immaginava, probabilmente, un caleidoscopio della sua esperienza d’attrice all’Odin, forse già in quella logica che adotterà per Bianco come il gelsomino.

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Peggio della cattiva volontà c’è, non di rado, la buona volontà. Certuni, lungimiranti, ce l’hanno spesso ripetuto. Per farsene una ragione basta dare un’occhiata alle indicazioni dei “progetti” per i quali vengono banditi concorsi (per esempio, dalla Comunità Europea,o da certe Regioni, o da altre istituzioni culturali pubbliche e private, grandi o piccole):

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[“il Manifesto”, 12/11/2000]

Il Tartufo di Molière, tradotto da Cesare Garboli, regia di Toni Servillo, è andato in scena al Teatro Argentina di Roma la sera del 4 febbraio 2000. Quella mattina, sulla prima pagina de “Le Monde” compariva un articolo di Carlo Ginzburg su Sofri che rientrava in galera a Pisa dopo che la Corte d’Appello veneziana aveva negato la revisione del processo per l’assassinio di Calabresi. Ginzburg scriveva dell’aria onesta e intelligente del giudice

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In Teatro e Storia, ns 35, 2014, pp. 213-224. [1]

            Il mio tema sono gli spettacoli politici dell’Odin Teatret. Il prologo si situa in Polonia, una notte del 1980, di poco precedente ad uno sconvolgimento del regime che serrava il paese.

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Dionysus ex machina V (2014) pp. 151-158 — Abstract  I believe that what continues to tie me to the theatre is the experience of being both in a distant or foreign land and within the narrow borders of a country to which, like it or not, I belong. What binds me to the theatre is, also, my desire to avoid being a witness to the waste of my country. Not to its disappearance, but to something less and slightly worse than that. Therefore, could the title “Against the waste of our theatre” fit?

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