In Teatro e Storia, ns 35, 2014, pp. 213-224. [1]
Il mio tema sono gli spettacoli politici dell’Odin Teatret. Il prologo si situa in Polonia, una notte del 1980, di poco precedente ad uno sconvolgimento del regime che serrava il paese.
Ricordi e premesse
Una notte di molti anni fa, al Teatro Norwid di Jelenia Góra, ci fu un incontro fra l’Odin Teatret e i teatri Ósmego Dnia, Gardzienice e Akademia Ruchu. Era la notte fra il 19 e il 20 giugno 1980: un incontro fra artigiani, uno scambio in cui ciascun teatro mostrava frammenti del proprio lavoro. Fu anche un incontro clandestine.
Come fare per non restare soffocati? Questa domanda si declinava in maniera molto diversa, a quei tempi, in Danimarca o in Polonia. Da una parte voleva dire non lasciarsi soffocare dalle illusioni esalate dal benessere, dalla apparente insensatezza della rivolta, in una società in cui il buon senso sembra identificarsi con i valori del mercato e del senso comune; dall’altra era non lasciarsi soffocare da un potere politico dittatoriale e burocratico.
Eppure sentivo, con stupore, una forte somiglianza fra il danese Odin Teatret e i gruppi polacchi. Non era una somiglianza basata sullo stile, né sulla fede. Era piuttosto un modo simile di reagire alia mancanza di fede.
Quella notte pensai che le tre grandi ed ultime virtù – la Fede, la Speranza e la Carità – non sopravvivevano più insieme. Pensare a questo divorzio fra le tre sorelle teologali mi sembrò una guida alla comprensione di molti avvenimenti degli ultimi decenni del secolo. Era, comunque, un modo utile di pensare il teatro.
Le fedi senza speranze nutrono le roccaforti dei cleri e delle burocrazie. Quando conquistano il potere sono più terribili del malgoverno, della corruzione, della Mafia. Qualche mese prima, in Italia, a Genova, avevo incontrato Ludwik Flaszen. E mi ritornava in mente il suo sorriso sarcastico quando parlava dell’invincibile cecità di certi grandi intellettuali francesi, che avevano salutato la presa di potere di Khomeini come una liberazione. Gli intellettuali umanisti (Flaszen sorrideva e scuoteva la testa) ci ricascano sempre! sono sempre gli ultimi a capire che cosa orribile possa diventare uno Stato quando ha degli ideali e li vuole realizzare!
Ma sul versante opposto alle fedi senza speranza, c’erano anche i segni di speranze senza fedi, luminose e nere. E quella notte cantavano, danzavano e improvvisavano in una sala del teatro di Jelenia Góra.
L’Odin era in tournée in Polonia. Una di quelle sere, alla fine dello spettacolo dell’Odin Teatret, che era Ceneri di Brecht[2], uno spettatore mio vicino che era rimasto un poco ad indugiare al suo posto, improvvisamente si riscosse dalle sue riflessioni e come pensando ad alta voce si rivolse a me – che non conosceva – e mi disse (in inglese): «Costoro non sperano in niente. Sperano solo quello che stanno facendo».
Come possono sperarlo, se lo stanno facendo!?
Eppure mi pareva proprio una buona definizione dell’Odin, o di Eugenio Barba, o del loro spettacolo. E soprattutto si sarebbe adattata benissimo a definire quella notte di scambi teatrali clandestini. Che significato poteva assumere Ceneri di Brecht in Polonia? Come mai non era stata edulcorata l’ultima scena dello spettacolo, quando Kattrin danzava per la liberta ed il socialismo e veniva soffocata ficcandole in bocca la «Pravda»? Eugenio Barba aveva proposto ad Alina Obidniak, la direttrice del teatro Norwid, di rendere quella scena meno pericolosa per i responsabili della tournée polacca dell’Odin. Alina aveva risposto che non era necessario, che la si poteva lasciare così. Ma allora perché Eugenio Barba aveva risposto in maniera tanto accurata ed elusiva alla domanda di due giornalisti sovietici che gli chiedevano il significato di quella scena, e aveva spiegato: «Quel giornale è scelto per il suo nome: pravda, “verità”, e vogliamo dimostrare che la verità a volte può uccidere». Aveva aggiunto sorridendo: «E uno di quei simboli di cui il teatro fa uso comunemente». Anche i due giornalisti con il distintivo del partito Comunista dell’URSS avevano sorriso. Aveva sorriso così anche il giornalista venuto da Berlino Est, amico del Berliner Ensemble, che durante tutto il tempo dello spettacolo aveva preso appunti. Lo spettacolo, disse, gli era piaciuto. Ma qualche tempo dopo la figlia di Bertolt Brecht, con lettera ufficiale, tolse all’Odin i diritti per utilizzare i testi di suo padre, diritti che con lettera altrettanto ufficiale aveva precedentemente concesso.
E perché Barba aveva pregato i membri del Teatr Laboratorium di non venire a Jelenia Góra ad assistere al suo spettacolo, dicendo che poteva costituire il pretesto per un’accusa? (Stanislaw Scierski, però, l’eterno disobbediente, era venuto lo stesso). Il Teatr Laboratorium era sul filo del rasoio. Era impegnato nel progetto «Teatro delle fonti», era già stato più volte minacciato. D’altra parte aveva un grande prestigio. Da Mosca pareva che avessero smesso di chiederne la chiusura. Agiva lungo i vasi capillari, da persona a persona. Sfuggiva alle logiche della contrapposizione politica aperta. Agli occhi delle autorità rischiava di apparire clandestino e pericoloso. Agli occhi di coloro che si ribellavano apertamente, rischiava di apparire rinunciatario ed ambiguo.
Quando la «Pravda» soffocava Kattrin, calava il buio sullo spettacolo dell’Odin. Gli spettatori, nella sala di Jelenia Góra, in genere mantenevano un silenzio profondo. Qualcuno rideva, col tono di chi esclama: «proprio cosi!». Una delle ultime sere, però, si alzarono in piedi compatti, nel buio, e cominciarono ad applaudire con determinazione, a lungo, con l’aria di non voler smettere più. Era approvazione teatrale. Non solo questo, ovviamente: era il seme di una manifestazione politica.
Un cuore che si stringe
La notte fra il 19 e il 20 giugno 1980, la notte dell’incontro tra l’Odin e i tre teatri polacchi, fu abitata dalle danze del teatro Gardzienice. Mi avevano raccontato un episodio, ed ora mi rendevo conto di quel che probabilmente significava. Una notte, nel villaggio di Gnojno, durante una delle «spedizioni» teatrali del gruppo di Gardzienice, mentre la gente rideva ed applaudiva attorno al grande falò, un uomo s’era levato in piedi e aveva gridato: «Gente! Che cosa state a guardare? Stanno bruciando le vostre croci, vi stanno imbrogliando!». Non li stavano affatto imbrogliando. Non bruciavano croci. Ma qualcosa di giusto quello spettatore doveva averlo intuito: erano eretici, avevano il marchio ed il comportamento della speranza senza fede. Non parlavano un linguaggio consonante con le comunità assieme alle quali facevano festa.
Akademia Ruchu era un altro mondo: il mondo della cultura raffinata, apparentemente avanguardia fredda, astratta, attenta solo ad una geometria disincarnata. Ma si sentiva che quanto più le immagini erano esternamente congelate, imperturbabili e incomunicanti, tanto più dentro erano spaventate e derisorie, calde, persino sentimentali.
Ósmego Dnia era caustico, dava molta importanza alle parole, o piuttosto alla contraddizione fra parola e azione. Gardzienice cercava di affondare le proprie radici nella cultura dei villaggi e dei vecchi che li abitavano; Akademia Ruchu nelle ricerche delle avanguardie: mutava la percezione degli spettatori dilatando il tempo, lavorando sull’immobilità e sul mutamento impercettibile dell’azione. Le radici di Ósmego Dnia erano invece nella cultura del disegno satirico, del pamphlet, del giornalismo, dell’apologo paradossale e della letteratura fantapolitica.
Conoscevo il gruppo di Gardzienice e l’Akademia Ruchu, li avevo visti in Italia.
Ósmego Dnia era il più esplicitamente politico, fra i teatri che si incontrarono quella notte, ma l’urgenza amara della sua denuncia era contraddetta da una gioia che non poteva essere soffocata dalla necessità della rabbia. Ritrovavo sotto altre forme quell’amore per la contraddizione fra ottimismo e pessimismo che dava efficacia anche a Gardzienice ed a Akademia Ruchu. In forme ancora diverse, era lo stesso amore per la contraddizione che m’aveva innamorato degli spettacoli dell’Odin Teatret.
Raccontavano gli antichi viaggiatori che gli Sciti avevano un modo particolarmente raffinato di macellare. Si introducevano, per esempio, sotto la pancia d’un cavallo, con una lama affilatissima gli aprivano il ventre, vi introducevano la mano esperta, si orientavano nelle interiora, raggiungevano il cuore, lo stringevano in pugno e lo fermavano. Era questo il modo in cui Ósmego Dnia commuoveva lo spettatore, fermandogli il cuore in un pugno chiuso e poi liberandolo e lasciandolo di nuovo palpitare. Solo in teatro, infatti, e possibile schiacciare il cuore e subito dopo inondarlo di calore.
Stringere il cuore e inondarlo di vita, questa opposizione, che brillava in quella notte polacca, credo che sia la cellula fondamentale da cui cresce il valore politico del teatro. Che è altra cosa rispetto al genere del «teatro politico»
Questa opposizione è il vero tema della mia relazione. Una delle terre d’origine dell’Odin Teatret e proprio la Polonia, l’apprendistato umano, politico e teatrale che vi compì Eugenio Barba prima del ‘64, quando ad Oslo fondò il suo teatro.
Il primo spettacolo
- Che cosa fecero i romani ai cristiani?
- Li bruciarono vivi come torce.
- Che cosa fecero i cristiani agli ebrei?
- Per duemila anni li hanno perseguitati.
- Che cosa fece la Chiesa ai protestanti?
- Li arse vivi.
- Che cosa fecero i protestanti con le streghe?
- Le arsero vive.
- I pietisti e gli altri perseguitati religiosi rifugiati in America per la libertà, che cosa fecero ai negri?
- Li appesero agli alberi e li bruciarono vivi.
- Che cosa fecero i turchi agli armeni?
- Li cacciarono nel deserto e li lasciarono morire di sete. Donne, lattanti e vecchi, fino alia fine.
- Che cosa fecero gli inglesi agli irlandesi?
- Gli spararono addosso, li impiccarono. Bruciarono le loro citta.
- Che cosa fecero i giapponesi ai prigionieri di guerra?
- Li legarono ai pali, li lasciarono morire di sete.
- Che cosa fecero i comunisti quando giunsero al potere?
- Usarono violenza e tortura e costruirono campi di concentramento.
- Che cosa fecero i francesi agli algerini?
- Elettricità.
- Che cosa fecero gli americani ai giapponesi?
- Fecero cadere su di loro due bombe atomiche. Bruciarono viviseicentomila donne, bambini, vecchi e malati, donne gravide e piccoli non ancora nati.
- E che cosa fecero a voi i tedeschi?
- Ci pestarono coi bastoni. Ci misero contro un muro e ci fucilarono.
- E a loro cosa volete fare?
- Giustizia!
È il primo spettacolo dell’Odin Teatret, Ornitofilene, del 1965[3]. E anche il primo di molti suicidi che incontreremo nei diversi momenti di quella «leggenda nera» composta dall’Odin attraverso i suoi spettacoli[4].
Quando Jan Palach, nel 1968, si era suicidato a Praga bruciandosi vivo per protestare contro l’occupazione sovietica del suo paese, molti avevano detto e pensato che aveva compiuto un’azione tragica e inutile. Lo dicevano (ma soprattutto lo pensavano) non solo i politologi, ma molti dei giovani, coetanei di Jan Palach, che nei diversi paesi d’Europa e del mondo scoprivano in quei mesi un nuovo modo di far politica, fuori dalle categorie della «guerra fredda» e fuori dai partiti, contro le storture della «società dei consumi», contro le falsità del «socialismo reale».
«Inutile» è un aggettivo magico, basta dirlo per illudersi che si saprebbe davvero che cosa sarebbe «utile», consigliabile. È un potente gioco di prestigio al servizio dell’ottimismo dell’intelletto.
Gli spettacoli dell’Odin Teatret sono intrisi degli aromi e degli afrori che provengono dai tempi in cui viviamo. Sono stati composti in un’atmosfera esposta alle mutazioni. Simili a certi frammenti rocciosi, conservano nella loro stratigrafia i segni delle catastrofi e dei climi. Oppure, come accade a certi esseri particolarmente sensitivi, reagiscono a terremoti che non sono ancora arrivati a tremare.
Non rientrano mai nel genere del «teatro politico» ma sono politici perché espongono una «leggenda nera» che viene poi continuamente contrastata o contraddetta da una dilatazione della vita scenica, che è impeto sensualità e precisione. Tale dialettica fra «leggenda nera» e amore per la vita (scenica) spinge in molti casi lo spettatore fuori del suo usuale equilibrio e quindi può sollevarlo verso la riflessione su di sé, sul proprio ambiente, sul proprio tempo, e sul modo in cui egli vi prende posizione.
Spero di indicare almeno un punto di partenza per la comprensione di questo fenomeno che definisce l’unicità dell’Odin Teatret, il suo modo individuale, inimitabile, di avere una politica pur non chiudendo gli occhi di fronte al buio della Storia.
La leggenda nera
Le diverse opere dell’Odin sono i pezzi scompigliati d’un grande romanzo sul passaggio al terzo millennio. Il passaggio diventa una strettoia particolarmente evidente a partire dagli anni Sessanta ed ha la sua crisi negli Ottanta. A quel punto, per l’Odin c’è Il Vangelo di Oxyrhincus[5]. In Polonia era il periodo della dittatura di Jaruzelski. Lech Walesa, il fondatore di Solidarnosc, si inginocchiava davanti ad un altro sovrano polacco, Giovanni Paolo II, e gli baciava la mano. In Cile c’era ancora Pinochet. In Iran, c’era Khomeini. In America Latina, Sendero Luminoso parlava di socialismo e iniziava una pratica di fredda ferocia. Il fanatismo stava perdendo (non l’aveva persa del tutto) persino la parvenza d’un legame con le ideologie politiche, con l’idolatria mascherata da «culto della personalità, e stava tornando (non vi era ancora del tutto tornato) alle sue forme semplici e classiche d’intolleranza religiosa, di odio etnico, di xenofobia, di «politiche d’identità» ispirate da idoli altrettanto astratti di quelli delle guerre ideologiche, ma basati sulle solite tradizioni menzognere, invece che su menzognere previsioni.
Prima del Vangelo di Oxyrhincus, gli spettacoli dell’Odin Teatret erano stati come sassi che potevano servire a infrangere le vetrine delle illusioni, negli anni in cui il bisogno di giustizia rischiava sempre di straripare fra gli idoli, quando le contrapposizioni ideologiche creavano un terreno fertile per le speranze, per i futuri remoti, e quando politicamente uno diceva «sinistra» e sapeva (o per lo meno credeva di sapere) dove guardare. Dopo Il Vangelo di Oxyrhincus, gli spettacoli dell’Odin saranno strumenti contro un’illusione più sottile: quella secondo cui la caduta delle «vecchie» illusioni significherebbe chiarezza, senso della realtà.
Seduti in un salottino, davanti ad una teiera fumante, siamo spettatori di Memoria:[6] ci sono una raccontatrice di storie ed un musicista ambulante. Lo sappiamo: sono passati già troppi anni dalla guerra e dal nazismo, e alla voglia di distogliere lo sguardo, di dimenticare, si sta sostituendo quella di riscrivere il passato ripulendolo un po’, di modo che la memoria sia sgombra dall’odio per il Male (non è forse male, l’odio?). Non è forse tempo di ripulire la memoria dall’orrore? È forse scienza, l’orrore? Ma la raccontatrice di storie sembra essere proprio una sacerdotessa dell’orrore. Ci guarda come se attraverso i nostri volti vedesse altri volti, volesse riscoprire in loro il refrigerio della misericordia. Parla come quando si raccontano le favole. Due favole. Due storie vere. Riguardano dei bambini, testimonianze dai campi di sterminio nazisti. Ma che finiscono bene. Canti ebraici. A volte la raccontatrice di storie sembra quasi abitata dai suoi racconti e dai suoi personaggi. Quando ha finite, qualcosa ancora cova dentro di lei, la scuote e la culla. E ciò che non può dimenticare toma a non darle requie. Il vento della mente la fa vagare come una foglia d’autunno, scivola da una frase all’altra, confonde le persone, perde la parola e la ritrova, entra in una storia e si ri- trova in un’altra, non sa neppure lei perché. Ripete i racconti, ma le frasi si fanno sempre più smozzicate, piene di silenzi, di parole perdute. Si sta perdendo qualcosa di essenziale: non la memoria, ma la forza e la parola in grado di trasmetterla senza soccombere. Alla fine compaiono i volti di due scrittori, l’arguto e sorridente Primo Levi, e il mesto Jean Améry, ebrei ambedue, sopravvissuti ad Auschwitz, ambedue suicidi, anni dopo... «Siamo rimasti in due. Ci occupiamo di ossa».
La vetrina delle illusioni
Ho spesso pensato che il segreto dell’Odin Teatret fosse il pensiero paradossale. Troppo facile. È facile pensare in termini paradossali. Agire in maniera paradossale invece è difficile. È evidente che Eugenio Barba e l’Odin Teatret non fanno politica. Ma hanno una politica?
«Agire in modo paradossale» e «avere una politica» credo siano due modi diversi per significare la stessa cosa.
Pochissimi teatri sanno avere una politica.
Il paradosso in azione dell’utopia e praticato dal Living Theatre. A differenza del Living, l’Odin non difende e non diffonde la visione di una società giusta possibile. Seguono tattiche e strade molto diverse. Ma hanno una simile, forse identica politica.
Gli spettacoli dell’Odin Teatret incarnano il secondo dei due paradossi dell’azione politica. Mostrano la «leggenda nera», eppure non sono mai spettacoli cupi. Quel che mostrano e raccontano non è incoraggiante, e quel che Eugenio Barba e i suoi compagni reputano essere vero, non ciò che considerano buono. Ma nel dire le loro nere verità creano un nodo vivo e profondo con gli spettatori. Fanno discorsi disillusi e pessimisti, persino da nichilisti o da misantropi, ma con il dispendio di energie, con l’eccesso di cura per i più piccoli dettagli, con l’incandescenza e la sensualità dell’amore («Amore e arte fanno grandi le piccole cose» dice un verso di Goethe).
La tensione fra ciò che lo spettacolo dice e quel che fa, fra i suoi contenuti e la sua efficacia, crea una particolare dimensione politica del teatro. Non è - ovviamente - una dottrina.
Chi sono i «buoni»? E i «cattivi»? Questa domanda infantile, che fa sorridere, di fatto per ciascuno di noi, nel nostro forum interiore, e la sola che vale. Ornitofilene, Kaspariana[7] Ferai, Il Vangelo di Oxyrhincus erano «politici» in maniera assai diversa da quegli spettacoli che affrontano specifici problemi sociali, additano particolari ingiustizie o svelano e denunciano verità velate. Erano politici come le tragedie di Corneille o di Alfieri o di Pasolini: vi si rendeva incandescente un tema di fondo relativo all’azione e al potere, preso nel suo schema astratto. In essi, l’intelligenza si aggrappava fermamente al suo pessimismo.
Applicato alia Storia, questo atteggiamento genera un doppio sguardo, sgomento e beffardo, quasi non sapesse o non volesse decidere fra la propria idea di giustizia e la propria idea di verità, fra il rifiuto dell’iniquità e della forza, e il rifiuto delle speranzose illusioni, che dicono: quell’iniquità non sarà sempre vincitrice; quella forza non sarà sempre la sola; a questo mondo vi sarà giustizia finalmente[8].
Conclusioni
Ho parlato d’una «leggenda nera», ma non vorrei che chi ascolta la confondesse con un programma di filosofia pessimista. Sono le evidenze d’una traversata. Sembrerà enfatico, ma debbo dirlo: all’Odin Teatret si passa la vita, alla lettera, nel tentativo di negare quelle evidenze. Gli spettacoli dell’Odin, anzi, potrebbero essere definiti come una rivolta contro il senso delle loro storie e delle loro trame.
La «leggenda nera» e un po’ come la volgarità. È stato detto che la persona volgare non è quella che ha in sé della volgarità. Infatti e impossibile non averne: e il nostro concime. È volgare colui che sta dalla parte della propria volgarità. Similmente si può dire che riconoscere l’evidente «leggenda nera» della Storia non vuol dire stare dalla parte della Storia.
Gli spettacoli dell’Odin Teatret hanno efficacia politica perché riescono a mostrare insieme la «leggenda nera» e la possibilità di non stare dalla sua parte. Cosi nutrono l’ottimismo della volontà.
Dal punto di vista della tecnica drammaturgica, molte delle trame dei loro spettacoli, prese in sé, sono semplici come i piccoli filamenti di tungsteno fragili e leggerissimi che facendo attrito all’energia che li attraversa diventano incandescenti, sicché il loro sottile nodo sparisce nella luce elettrica che produce. La loro fragilità e semplicità sono in funzione dell’incandescenza, quando siano attraversate dall’energia cesellatrice e precisa del poeta.
Il «poeta» nell’Odin non è una sola persona. È costituito dalla coppia attore-regista. Gli spettacoli nascono principalmente attraverso una tensione ed un conflitto fra l’impostazione o il programma drammaturgico e tutto ciò che lo contraddice e lo lacera, provenendo dal lavoro che si svolge in sala. Questo conflitto forse si presento da sé, ma venne subito accettato da Barba e dai suoi attori, fin dal ’65. Poi è stato sempre voluto, amato e difeso contro ogni tendenza verso lo spettacolo pre-visto.
La distinzione fra l’intenzionalità drammaturgica e quel che la lacera non coincide con la distinzione fra il regista e gli attori. Ma forse coincide con la distinzione fra ciò che gli attori-e-il-regista pensano e ciò che attraverso di loro traspare quando agisconoteatralmente (speranza senza fede).
Gli spettacoli dell’Odin non possono essere visti come l’espressione delle intenzioni degli attori e del regista. Questo è vero per ogni opera d’arte (forse per ogni opera), ma e particolarmente vero per l’Odin, perché a partire da questa verità sono stati tracciati dei sentieri per l’azione. Né il regista né gli attori dell’Odin vogliono degli spettacoli che siano espressione delle loro intenzioni, vogliono spettacoli che nascano dalle loro intenzioni. Il che non vuol dire che il punto di partenza possa essere debole e casuale. È invece solido e vicino a preoccupazioni radicali. Ma lo spettacolo che alla fine ne nasce non è ciò in cui il gruppo si ri-conosce, ma ciò in cui impara.
Lo spettatore e posto, alla lettera, di fronte a se stesso. E questo rende spesso difficile il lavoro dei critici di professione.
Possono essere interessanti certi comportamenti dei critici di professione: alcuni di loro, quando al Festival teatrale di Venezia avevano visto Ferai nel 1969 ne avevano scritto negativamente. Essi stessi, però, quando nell’autunno del ’72 videro Min fars hus[9] dissero che purtroppo l’Odin Teatret non era più altrettanto convincente e non raggiungeva la grandezza d’uno spettacolo come Ferai. E ancora gli stessi, quando videro Come! And the Day will be ours nel ’76 scrissero che, dopo un capolavoro come Min fars hus, Barba sembrava esaurito. E così via. Strani scherzi della memoria.
Le difficoltà tecniche di parlare di Min fars hus derivano dal fatto che in quello spettacolo l’impasto fra «pessimismo dell’intelligenza» ed «ottimismo della volontà» era talmente denso che le due parti del paradosso non possono venir distinte nell’analisi. Era la dimostrazione tangibile che è possibile un altro tipo di relazioni, ciò di cui abbiamo sete, di cui sentiamo la mancanza quotidianamente. Relazioni fra attori e spettatori? Non solo. Fra esseri umani? Certamente. Fra sé e sé? Forse. La grandezza di quello spettacolo non derivava da una concezione geniale, ma da una geniale accettazione di ciò che nacque nel corso del lavoro attraverso le azioni degli attori-e-del-regista, e che secondo le corrette misure del mestiere teatrale avrebbe dovuto essere giudicato inaccettabile. Quando lo vedemmo, per alcuni fu come essere calati in un vetro bollente. Ma durante il processo (ho raccolto le testimonianze di chi vi lavorava, ho visto anche alcuni documenti registrati) doveva apparire d’una banalità imbarazzante, al limite della vita privata. Quella banalità non venne scartata. Era una pietra dello scandalo e ci costruirono sopra.
Se intendiamo con l’aggettivo «politico» l’efficacia di un’azione che cambia il contesto in cui avviene, lo spettacolo più «politico» dell’Odin è stato Min fars hus. Eppure è lo spettacolo del quale quasi non ho parlato, non per pudore, ma per difficoltà tecniche. Personalmente posso dire che dopo quello spettacolo la mia vita è cambiata. Non saprei dire come e perché. Ma so che è cambiata. È profondamente cambiata la vita degli attori e del regista che vi parteciparono. È cambiata la vita dell’Odin in quanto gruppo, perché è stato quello spettacolo, che sembrava così «difficile», a portare il gruppo fuori dai circuiti teatrali, nelle università o presso i piccoli gruppi di teatro indipendente, o davanti a spettatori non abituati al teatro. E conosco bene forse una cinquantina di persone la cui vita e stata anch’essa sensibilmente cambiata da quello spettacolo. Non parlo di folgorazioni su qualche cosiddetta via di Damasco. Parlo di riflessioni, come dopo la lettura di certi libri, o come il viaggio in certe esperienze che obbligano a prendere posizione. Molte di più ne conosco, di persone, per le quali si trattò d’uno spettacolo che non riescono a dimenticare, alcune non ne ricordano neppure il titolo, ma ricordano quella strana esperienza teatrale di alcuni anni fa che ha piantato radici profonde nella loro memoria emotiva. Ma tutto è relativo: molti altri spettatori, alcuni privi di chiusure preconcette, sensibili e intelligenti, in Min fars hus non videro niente - o niente di interessante.
Quando nel «prologo» ho parlato di quella notte di diciassette anni fa, al Teatro Norwid di Jelenia Góra, di quell’incontro fra artigiani del teatro, ho detto che fu anche un incontro clandestino. Ma perché clandestino? Non si trattava certo di società segrete. Erano artigiani della differenza. Trasformare la differenza in arte non significa soltanto difenderla, ma renderla feconda, capace di contagiare, di produrre trasformazioni impreviste. Significa darle una politica. Vuol dire, quindi, apprendere la logica d’una minoranza che non vuole divenire maggioranza: qualcosa che è all’opposto della normale mentalità politica, e in cui ottimismo e pessimismo riescano ad essere l’uno l’altra faccia dell’altro. Vuol dire, innanzi tutto, imparare la difficile arte di navigare, senza restarne menomati, nel gran mare dell’indifferenza circostante.
Come fare per non restare soffocati?
[1] Il buio è una via è la relazione di Taviani al convegno Laboratori, gruppi e studi teatrali nel Novecento in Europa tenutosi a Wroclaw, in Polonia fra il 24 e il 27 aprile 1997, organizzato dal «Centre of Studies of Jerzy Grotowski’s Work and of the cultural and theatrical research». Il convegno si basava sull’incontro fra rappresentanti degli studi teatrali italiani e polacchi. Non prevedeva la pubblicazione degli atti. Quello che presentiamo qui non è il saggio originale (mai pubblicato integralmente, si può trovare presso gli Odin Teatret Archive, fondo Odin, serie Publications, b. 14) ma una sua riduzione, che l’autore ha ritenuta più giusta per questo contesto. Fra i più recenti contributi di Ferdinando Taviani sull’Odin Teatret si vedano: Enclave, in Mirella Schino, Alchimists of the Stage. Theatre Laboratories in Europe, Holstebro - Malta - Wroclav, 2009, pp. 161-189. Nell’edizione italiana (M. Schino, Alchimisti della scena. Teatri laboratori del Novecento europeo, Roma-Bari, Laterza, 2009), pp. 120-138; Le Indie nere dell’Odin Teatret, nel programma di sala per lo spettacolo La vita cronica, Holstebro, settembre 2011, pp. 16-23; Theatrum Mundi - Interculturalismo y politica en el Ur-Hamlet de Barba, «Primer Acto» (Madrid), 346, I/2014, pp. 38-47; Presentazione del libro di E. Barba, La conquista della differenza. Trentanove paesaggi teatrali, Roma, Bulzoni, 2012; La iconoclasta longevidad de un teatro laboratorio, «Primer Acto» (Madrid), 346,1/2014, pp. 22-28.
[2] Ceneri di Brecht, 1a versione 1980; 2a versione 1982. Rappresentato fino all’ottobre 1984. Attori: Torben Bjelke (solo 1a versione), Roberta Carreri, Toni Cots, Tage Larsen, Francis Pardeilhan, Iben Nagel Rasmussen, Silvia Ricciardelli, Ulrik Skeel, Julia Varley, Torgeir Wethal. Testo e regia di Eugenio Barba
[3] Ornitofilene, 1965. Rappresentato fino al marzo 1966. Attori: Anne Trine Grimnes, Else Marie Laukvik, Tor Sannum, Torgeir Wethal. Regia di Eugenio Barba. Da un testo teatrale di Jens Bjørneboe, adattato da Eugenio Barba. [Cfr. Mirella Schino, Lo schema del secondo giocatore. Su Jens Bjoørneboe, il diavolo e l'Odin Teatret, «Teatro e Storia» n. 34, 2013, pp. 21-74. N. d. R.].
[4] II titolo «leggenda nera» (leyenda negra) è stato usato da Bartolomeo de Las Casas, nel XVI secolo, per indicare una storia di nefandezze: gli orrori del Nuovo Mondo conquistato (o «scoperto») dal Vecchio.
[5] Il Vangelo di Oxyrhincus, 1985. Rappresentato fino al giugno 1987. Attori: Roberta Carreri, Else Marie Laukvik, Tage Larsen, Francis Pardeilhan, Julia Varley, Torgeir Wethal. Regia e drammaturgia di Eugenio Barba.
[6] Memoria, 1990. Rappresentato fino al marzo 1994. Regia di Eugenio Barba; attrice: Else Marie Laukvik; musicista Frans Winther. Uno spettacolo per soli trenta spettatori. È stato ripreso nel 2012, dopo vent’anni di silenzio.
[7] Kaspariana, 1967. Rappresentato fino al febbraio 1968. Attori: Jan Erik Bergstrom, Anna Trine Grimnes, Lars Göran Kjellstedt, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Dan Nielsen, Torgeir Wethal. Regia di Eugenio Barba. Da un testo di Ole Sarvig adattato da Eugenio Barba.
[8] Nel più importante romanzo italiano dell’Ottocento, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, romanzo storico ambientato nella Lombardia del XVII secolo, uno dei protagonisti, un giovane perseguitato dal feudatario locale, nel colmo dell’ira per le ingiustizie subite, ad un certo punto esclama: «A questo mondo, alla fin fine, ci sarà pure giustizia!» e l’autore commenta: «Come è vero che chi è arrabbiato non sa più quel che dice!».
[9] Min fars hus, 1972. Rappresentato fino al gennaio 1974. Attori: Jens Christensen, Malou Ilmoni (che abbandonò lo spettacolo dopo le prime settimane di rappresentazione), Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Ulrik Skeel, Torgeir Wethal. Drammaturgia e regia di Eugenio Barba.